Infertilità: quando non ci sono cause apparenti, la risposta arriva dalla genetica
La genetica può dare una risposta ai casi di infertilità idiopatica. I cosiddetti “esami di secondo livello” rappresentano la strada per trovare le cause che impediscono una gravidanza o una maternità, dando così una soluzione a quelle coppie che, pur avendo tutti i parametri nella norma, non riescono ad avere un figlio.
«L’infertilità idiopatica, ovvero quell’infertilità che apparentemente non ha cause specifiche, è una condizione che interessa circa il 10-15% delle coppie con problemi riproduttivi», premette la dottoressa Marina Bellavia, specialista in Medicina della riproduzione del centro di fecondazione medicalmente assistita ProCrea di Lugano. «È una condizione frustrante: ci si sente dire che tutto è normale, ma la gravidanza non arriva.
L’inquadramento diagnostico di queste coppie è fondamentale: in questi casi occorre procedere ad un’anamnesi accurata per cercare di analizzare ogni dettaglio che possa aiutare nell’iter diagnostico».
In assenza di endometriosi o di malattie specifiche come la sindrome delle ovaie policistiche o patologie uterine come i polipi endometriali o con parametri del liquido seminale che non fanno suonare campanelli di allarme, orientarsi può essere complesso.
«Purtroppo le cause di infertilità possono essere molte e molto differenti tra loro. Possono essere riconducibili all’uomo o alla donna, oppure ad entrambi. Ma quando i normali screening non evidenziano nulla, può risultare utile ricorrere agli esami di secondo livello, ovvero ricorrere alla genetica.
Gli esami genetici infatti permettono molte volte di scoprire che patologie subdole, ad esempio le intolleranze alimentari, possono in realtà essere anche causa dell’infertilità o di poliabortività», spiega la specialista di Procrea.
Del resto, l’assunzione di cibi non tollerati provoca un’infiammazione cronica e quindi una risposta immunologica esagerata che può essere dannosa per la maturazione degli ovuli. Inoltre, aggiunge Bellavia, «una problematica di malassorbimento, anche se non percepito dalla paziente, può portare ad un deficit di vitamine e oligoelementi essenziali all’organogenesi del feto».
Lo studio della proteina HLA-G, è un passo ulteriore. Come spiega: «Gli antigeni di istocompatibilità possono avere un ruolo nell’aumentare la tolleranza materna verso l’embrione e quindi le chance di gravidanza. Un prelievo del sangue su entrambi i partner permette di capire se l’embrione produrrà una quantità sufficiente di una proteina chiamata HLA-G che gli permetterà di impiantarsi e svilupparsi nell’utero. Altri esami genetici della coagulazione o specifici per i partner maschili sono altrettanto importanti per la diagnosi e quindi la scelta della migliore terapia della PMA».
Da non sottovalutare, l’età della donna. È infatti riconosciuto che con il passare degli anni la fertilità femminile diminuisce – in particolare superati i 35 anni -, questo perché «la qualità degli ovociti prodotti si abbassa; con l’avanzare dell’età aumenta infatti il numero delle aneuploidie cromosomiche, cioè delle anomalie nel numero dei cromosomi dell’ovocita e quindi dell’embrione che ne deriverà. Queste anomalie possono ostacolare la fecondazione, ma anche provocare un’interruzione di gravidanza. Anche qui, le diagnosi genetiche ci possono venire in soccorso, andando a individuare gli embrioni che non presentano queste anomalie cromosomiche».
Non è detto che i casi di infertilità idiopatica siano anche quelli più difficili da superare. Conclude la dottoressa del centro ProCrea: «I casi apparentemente più complicati possono a volte trovare una soluzione grazie alla genetica che, sempre di più, fa passi avanti nella scoperta di cause di infertilità che fino a poco tempo fa erano sconosciute».